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Omaggio a J. Koudelka - Nuoro, 2020 - Erano le 12:22 del 23 Agosto 1968 a Praga, quando un ancora semisconosciuto Joseph Koudelka realizzò una delle immagini maggiormente rappresentative dell'arte fotografica.
In un'unica inquadratura inserì il Tempo, la Storia, la Desolazione, creando un'icona rivelativa di tutto il XX secolo.
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Omaggio a J. Koudelka - Nuoro, 2020
Erano le 12:22 del 23 Agosto 1968 a Praga, quando un ancora semisconosciuto Joseph Koudelka realizzò una delle immagini maggiormente rappresentative dell'arte fotografica.
In un'unica inquadratura inserì il Tempo, la Storia, la Desolazione, creando un'icona rivelativa di tutto il XX secolo.
Omaggio a E. Weston - Nuoro, 2020 - Nel 1930 Edward Weston realizzò lo scatto intitolato "Peperone n.30" , una delle immagini più rappresentative del filone americano delle nature morte moderniste.
Il fotografo, attraverso un sapiente uso della luce naturale, sottolineò le curve sinuose dell'ortaggio, dando così a un comune vegetale l'aurea di scultura e rendendolo icona della sensualità delle forme.
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Omaggio a E. Weston - Nuoro, 2020
Nel 1930 Edward Weston realizzò lo scatto intitolato "Peperone n.30" , una delle immagini più rappresentative del filone americano delle nature morte moderniste.
Il fotografo, attraverso un sapiente uso della luce naturale, sottolineò le curve sinuose dell'ortaggio, dando così a un comune vegetale l'aurea di scultura e rendendolo icona della sensualità delle forme.
Omaggio a H.C. Bresson - Nuoro 2020 - Nel 1954 l'obiettivo di Henri Cartier Bresson si posò su un bambino che percorreva con aria baldanzosa Rue Mouffetard, portando sotto braccio due bottiglie di vino.
Questa fotografia, ricca di emozioni, rappresenta concettualmente il carico di responsabilità assegnato ai piccoli gesti che ci fanno sentire grandi e tecnicamente ci dimostra come spesso una fotografia leggermente storta può raccontare più di mille immagini in bolla :-) .
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Omaggio a H.C. Bresson - Nuoro 2020
Nel 1954 l'obiettivo di Henri Cartier Bresson si posò su un bambino che percorreva con aria baldanzosa Rue Mouffetard, portando sotto braccio due bottiglie di vino.
Questa fotografia, ricca di emozioni, rappresenta concettualmente il carico di responsabilità assegnato ai piccoli gesti che ci fanno sentire grandi e tecnicamente ci dimostra come spesso una fotografia leggermente storta può raccontare più di mille immagini in bolla :-) .
Omaggio a M. Parr - Nuoro, 2020 - Uno degli sguardi più attenti, scrupolosi e allo stesso tempo irriverenti del panorama fotografico mondiale, l'inglese Martin Parr concentra il suo lavoro sull'uomo e l'ambiente che lo circonda.
Flussi turistici nelle metropoli, working class in vacanza, folle tra le corsie dei paradisi consumistici, tutti vengono messi a nudo dal suo flash e dall'uso maestrale del colore, con uno stile che spazia dalla street photography al reportage sociale, dalla fotografia di ricerca artistica al più classico ritratto.
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Omaggio a M. Parr - Nuoro, 2020
Uno degli sguardi più attenti, scrupolosi e allo stesso tempo irriverenti del panorama fotografico mondiale, l'inglese Martin Parr concentra il suo lavoro sull'uomo e l'ambiente che lo circonda.
Flussi turistici nelle metropoli, working class in vacanza, folle tra le corsie dei paradisi consumistici, tutti vengono messi a nudo dal suo flash e dall'uso maestrale del colore, con uno stile che spazia dalla street photography al reportage sociale, dalla fotografia di ricerca artistica al più classico ritratto.
Omaggio a E. Erwitt - Nuoro, 2020 - Elliot Erwitt è un fotografo francese, russo di origine e naturalizzato statunitense che, con le sue macchine fotografiche, ha attraversato buona parte del ventesimo secolo, raccontandocene con ironia e umorismo la vita quotidiana.
Tra i suoi lavori più noti, va citata sicuramente la serie sui cani che lui definiva "come gli umani, solo con più capelli", ritraendoli dal loro punto di vista e tagliando dall'inquadratura i loro "padroni": infatti Erwitt era solito attirare l'attenzione dei cani abbaiando o suonando una trombetta e li fotografava da un piano raso terra proprio per dare loro risalto e coglierne le espressioni più caratteristiche.
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Omaggio a E. Erwitt - Nuoro, 2020
Elliot Erwitt è un fotografo francese, russo di origine e naturalizzato statunitense che, con le sue macchine fotografiche, ha attraversato buona parte del ventesimo secolo, raccontandocene con ironia e umorismo la vita quotidiana.
Tra i suoi lavori più noti, va citata sicuramente la serie sui cani che lui definiva "come gli umani, solo con più capelli", ritraendoli dal loro punto di vista e tagliando dall'inquadratura i loro "padroni": infatti Erwitt era solito attirare l'attenzione dei cani abbaiando o suonando una trombetta e li fotografava da un piano raso terra proprio per dare loro risalto e coglierne le espressioni più caratteristiche.
Omaggio a R. Ballen - Nuoro, 2020 - Quando nel 2008 Su Palatu allestì la mostra di Roger Ballen, devo essere sincero, non lo conoscevo. Fu solo qualche anno dopo che l'amico Pasquale Bassu me lo fece conoscere e ne fui rapito.
Questo fotografo americano, che lavora prettamente in Sud Africa, geologo e psicologo, è senza ombra di dubbio uno degli artisti che in maggior modo ha saputo unire tra loro la pittura, la fotografia, la narrazione teatrale, l'arte scenografica, facendole confluire in delle opere che raccontano una società ai margini, un'umanità al confine, creando un mondo interiore complesso e disturbante: sfogliando il suo portfolio, non si riesce a comprendere dove finisca la fiction e inizi il reale e viceversa.
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Omaggio a R. Ballen - Nuoro, 2020
Quando nel 2008 Su Palatu allestì la mostra di Roger Ballen, devo essere sincero, non lo conoscevo. Fu solo qualche anno dopo che l'amico Pasquale Bassu me lo fece conoscere e ne fui rapito.
Questo fotografo americano, che lavora prettamente in Sud Africa, geologo e psicologo, è senza ombra di dubbio uno degli artisti che in maggior modo ha saputo unire tra loro la pittura, la fotografia, la narrazione teatrale, l'arte scenografica, facendole confluire in delle opere che raccontano una società ai margini, un'umanità al confine, creando un mondo interiore complesso e disturbante: sfogliando il suo portfolio, non si riesce a comprendere dove finisca la fiction e inizi il reale e viceversa.
Omaggio a E. Olaf - Nuoro, 2020 - Nell'estate del 2003 al museo MAN di Nuoro venne inaugurata la mostra "Booby Trap" del fotografo olandese Erwin Olaf.
In quel periodo giravo in lungo e in largo per la città, armato di una piccola compatta Canon digitale da un paio di megapixel (che oggi ci fanno ridere, ma vi faccio vedere le pubblicità su ZOOM di quel periodo che ne decantavano le lodi), intento a scattare fotografie per la mia tesi di laurea in Sociologia Visuale: fotografavo da diversi anni ed ero innamorato del reportage sociale e della fotografia paesaggistica di Luigi Ghirri.
Tutto questo solo per dirvi che non ero assolutamente "predisposto" alla fotografia di Olaf e che quando varcai le porte del museo fui investito da un treno di luci, irriverenza, eleganza, perfezionismo che ne porto i segni ancora oggi.
Grandioso ritrattista, pionere nell'uso di Photoshop, corteggiato e desiderato da tutti i photo editor del mondo, Olaf ha creato mondi patinati e terrificanti, come quello dei clown protagonisti di "Paradise The Club" o delle modelle di "Fashion Victims".
I suoi ritratti sono intrisi di ironia (come nella serie "Mature" in cui attempate pin up posano divertite e provocanti), anche se nei suoi set, in fondo, ci si trova a respirare una sorta di umana solitudine che non può lasciare indifferenti.
Un maestro indiscusso!
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Omaggio a E. Olaf - Nuoro, 2020
Nell'estate del 2003 al museo MAN di Nuoro venne inaugurata la mostra "Booby Trap" del fotografo olandese Erwin Olaf.
In quel periodo giravo in lungo e in largo per la città, armato di una piccola compatta Canon digitale da un paio di megapixel (che oggi ci fanno ridere, ma vi faccio vedere le pubblicità su ZOOM di quel periodo che ne decantavano le lodi), intento a scattare fotografie per la mia tesi di laurea in Sociologia Visuale: fotografavo da diversi anni ed ero innamorato del reportage sociale e della fotografia paesaggistica di Luigi Ghirri.
Tutto questo solo per dirvi che non ero assolutamente "predisposto" alla fotografia di Olaf e che quando varcai le porte del museo fui investito da un treno di luci, irriverenza, eleganza, perfezionismo che ne porto i segni ancora oggi.
Grandioso ritrattista, pionere nell'uso di Photoshop, corteggiato e desiderato da tutti i photo editor del mondo, Olaf ha creato mondi patinati e terrificanti, come quello dei clown protagonisti di "Paradise The Club" o delle modelle di "Fashion Victims".
I suoi ritratti sono intrisi di ironia (come nella serie "Mature" in cui attempate pin up posano divertite e provocanti), anche se nei suoi set, in fondo, ci si trova a respirare una sorta di umana solitudine che non può lasciare indifferenti.
Un maestro indiscusso!
Omaggio a U. Mulas - Nuoro, 2020 - Le "Verifiche" di Ugo Mulas, realizzate tra il 1969 e il 1972, sono uno dei capisaldi della letteratura fotografica: rappresentano uno di quei momenti in cui il fotografo prende un po di distanze dalla macchina e inizia a riflettere sul concetto di fotografia stessa, su tutto ciò che la rende possibile, sui tasselli che la compongono, in particolar modo su quelli che troppo spesso vengono dati per scontati (il tempo, lo spazio, l'ingrandimento, l'ottica, la didascalia, etc.).
Il frutto di queste elucubrazioni è una piccola raccolta di una grande forza artistica, tredici "Verifiche" in cui empirismo e creatività si incontrano, diventando indispensabili per chi non vuole fermarsi all'immagine e alla mera riproduzione meccanica, ma desidera capire il senso intrinseco che si cela dietro la superficie di un supporto fotosensibile.
Per realizzare questo mio tributo a Ugo Mulas non ho fatto altro che seguire le indicazioni riportate nella Verifica n°5 (con la sola differenza che le ho scattate a colori alla mattina, con un apparecchio digitale e le ho elaborate con un computer), puntare l'obiettivo verso il cielo (soggetto che in questo periodo di isolamento, più che in altri, fa la parte del leone nel nostro corto orizzonte) e farmi rapire dalle sue parole che, per enorme rispetto, riporto in maniera testuale.

"5. L’ingrandimento - II cielo per Nini

Se vi è qualcosa che non è assolutamente possibile ingrandire, questo qualcosa è il cielo. Una foto di un giorno terso, senza nubi e senza riferimenti terrestri ingrandita è un assurdo o un paradosso. Così dalla terrazza di casa, verso il tramonto, ho scattato un rullo con vari tratti del cielo, con la macchina in verticale e in orizzontale: la sequenza che ne è venuta è ricca di gradazioni da un fotogramma all’altro, di profondità, di intensità. Poi ho scelto un fotogramma e l’ho ingrandito al massimo di lettura, dove si arriva alla percezione della grana. La terza operazione è stata ingrandire un minimo dettaglio del fotogramma precedente secondo quanto mi consentiva il mio studio: da un particolare di poco più di tre centimetri a quasi tre metri e mezzo. A quel punto il cielo scompare e si ha solo una superficie granulosa. L’elemento dominante sono i coaguli di sali d’argento, la grana, e ci si accorge che si potrebbe ottenere la stessa immagine fotografando un muro, cioè che l’immagine è reversibile, intercambiabile. "
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Omaggio a U. Mulas - Nuoro, 2020
Le "Verifiche" di Ugo Mulas, realizzate tra il 1969 e il 1972, sono uno dei capisaldi della letteratura fotografica: rappresentano uno di quei momenti in cui il fotografo prende un po di distanze dalla macchina e inizia a riflettere sul concetto di fotografia stessa, su tutto ciò che la rende possibile, sui tasselli che la compongono, in particolar modo su quelli che troppo spesso vengono dati per scontati (il tempo, lo spazio, l'ingrandimento, l'ottica, la didascalia, etc.).
Il frutto di queste elucubrazioni è una piccola raccolta di una grande forza artistica, tredici "Verifiche" in cui empirismo e creatività si incontrano, diventando indispensabili per chi non vuole fermarsi all'immagine e alla mera riproduzione meccanica, ma desidera capire il senso intrinseco che si cela dietro la superficie di un supporto fotosensibile.
Per realizzare questo mio tributo a Ugo Mulas non ho fatto altro che seguire le indicazioni riportate nella Verifica n°5 (con la sola differenza che le ho scattate a colori alla mattina, con un apparecchio digitale e le ho elaborate con un computer), puntare l'obiettivo verso il cielo (soggetto che in questo periodo di isolamento, più che in altri, fa la parte del leone nel nostro corto orizzonte) e farmi rapire dalle sue parole che, per enorme rispetto, riporto in maniera testuale.

"5. L’ingrandimento - II cielo per Nini

Se vi è qualcosa che non è assolutamente possibile ingrandire, questo qualcosa è il cielo. Una foto di un giorno terso, senza nubi e senza riferimenti terrestri ingrandita è un assurdo o un paradosso. Così dalla terrazza di casa, verso il tramonto, ho scattato un rullo con vari tratti del cielo, con la macchina in verticale e in orizzontale: la sequenza che ne è venuta è ricca di gradazioni da un fotogramma all’altro, di profondità, di intensità. Poi ho scelto un fotogramma e l’ho ingrandito al massimo di lettura, dove si arriva alla percezione della grana. La terza operazione è stata ingrandire un minimo dettaglio del fotogramma precedente secondo quanto mi consentiva il mio studio: da un particolare di poco più di tre centimetri a quasi tre metri e mezzo. A quel punto il cielo scompare e si ha solo una superficie granulosa. L’elemento dominante sono i coaguli di sali d’argento, la grana, e ci si accorge che si potrebbe ottenere la stessa immagine fotografando un muro, cioè che l’immagine è reversibile, intercambiabile. "
Omaggio a S. McCurry - Nuoro, 2020 - Pensare a Steve McCurry in un momento di isolamento quasi totale dal mondo, effettivamente suona strano...
Non poter provare a cimentarsi con gli spazi aperti, con le strade, con l'umanità che vive, rende questo tributo un pò zoppo.
Ma poi, pensandoci bene, è proprio grazie a questo eccezionale fotografo che abbiamo potuto vedere le più belle espressioni dei visi, la sofferenza di intere popolazioni, i colori più sgargianti presenti sulla Terra, semplicemente sfogliando un suo volume tra le stesse quattro mura in cui siamo più o meno costretti oggi o ammirando le stampe di una sua mostra.
Credo che in pochi non riconoscano a McCurry una maestria  indiscussa in quella che è una delle componenti principali della fotografia: la composizione. In ogni sua immagine c'è un tripudio di linee convergenti, un equilibrio simmetrico, una convivenza di forme geometriche che incorniciano la scena, dettagli incredibili che si posano sui giusti punti di interesse.
Che sia un teatro di guerra in Afghanistan, un monsone in India, un tempio buddista in Cina o un pranzo all'aperto in Umbria, Steve McCurry sa catturare l'essenza dell'uomo, sempre meravigliandosi e sempre meravigliandoci.
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Omaggio a S. McCurry - Nuoro, 2020
Pensare a Steve McCurry in un momento di isolamento quasi totale dal mondo, effettivamente suona strano...
Non poter provare a cimentarsi con gli spazi aperti, con le strade, con l'umanità che vive, rende questo tributo un pò zoppo.
Ma poi, pensandoci bene, è proprio grazie a questo eccezionale fotografo che abbiamo potuto vedere le più belle espressioni dei visi, la sofferenza di intere popolazioni, i colori più sgargianti presenti sulla Terra, semplicemente sfogliando un suo volume tra le stesse quattro mura in cui siamo più o meno costretti oggi o ammirando le stampe di una sua mostra.
Credo che in pochi non riconoscano a McCurry una maestria indiscussa in quella che è una delle componenti principali della fotografia: la composizione. In ogni sua immagine c'è un tripudio di linee convergenti, un equilibrio simmetrico, una convivenza di forme geometriche che incorniciano la scena, dettagli incredibili che si posano sui giusti punti di interesse.
Che sia un teatro di guerra in Afghanistan, un monsone in India, un tempio buddista in Cina o un pranzo all'aperto in Umbria, Steve McCurry sa catturare l'essenza dell'uomo, sempre meravigliandosi e sempre meravigliandoci.
Omaggio a R. Mapplethorpe - Nuoro, 2020 - Questa mattina, dopo aver fatto un pò di spesa, sono passato a salutare mia madre. E’ rimasta in balcone e abbiamo scambiato due chiacchiere, il tempo di una sigaretta.
Prima di andare via, ho raccolto una calla dal suo giardino, sapendo che mi sarebbe servita per questo tributo a Robert Mapplethorpe.
Il fotografo americano, dalla fine degli anni ‘70 fino al 1989, ha realizzato una serie di nature morte, aventi come soggetto i fiori: tulipani, iris, orchidee, calle. Come spesso è stato fatto notare dai critici, queste immagini erano cariche di erotismo e si potevano collegare concettualmente al resto della produzione di Mapplethorpe, noto soprattutto per i suoi lavori sul nudo maschile. 
Ma c’è anche un’altro aspetto: il fiore è sempre stato considerato simbolo di vanità, per via della sua caducità, del suo sfiorire con il passare del tempo e, leggendo la bellissima autobiografia di Patty Smith “Just kids”, in cui racconta il lungo periodo di convivenza e amicizia proprio con Robert Mapplethorpe, mi piace pensare che sia una metafora che più gli si addice.
Comunque, dopo avere tenuto in mano il fiore per la fotografia, mio figlio mi ha chiesto se poteva regalarlo a Erika: io l’ho preso a mia mamma e lui lo ha regalato alla sua.
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Omaggio a R. Mapplethorpe - Nuoro, 2020
Questa mattina, dopo aver fatto un pò di spesa, sono passato a salutare mia madre. E’ rimasta in balcone e abbiamo scambiato due chiacchiere, il tempo di una sigaretta.
Prima di andare via, ho raccolto una calla dal suo giardino, sapendo che mi sarebbe servita per questo tributo a Robert Mapplethorpe.
Il fotografo americano, dalla fine degli anni ‘70 fino al 1989, ha realizzato una serie di nature morte, aventi come soggetto i fiori: tulipani, iris, orchidee, calle. Come spesso è stato fatto notare dai critici, queste immagini erano cariche di erotismo e si potevano collegare concettualmente al resto della produzione di Mapplethorpe, noto soprattutto per i suoi lavori sul nudo maschile.
Ma c’è anche un’altro aspetto: il fiore è sempre stato considerato simbolo di vanità, per via della sua caducità, del suo sfiorire con il passare del tempo e, leggendo la bellissima autobiografia di Patty Smith “Just kids”, in cui racconta il lungo periodo di convivenza e amicizia proprio con Robert Mapplethorpe, mi piace pensare che sia una metafora che più gli si addice.
Comunque, dopo avere tenuto in mano il fiore per la fotografia, mio figlio mi ha chiesto se poteva regalarlo a Erika: io l’ho preso a mia mamma e lui lo ha regalato alla sua.
Omaggio a A. Gursky - Nuoro, 2020 - Andreas Gursky, classe 1955, è un fotografo tedesco che si è formato, tra gli altri istituti frequentati, a Dusseldorf nella mitica scuola dei coniugi Bernd e Hilla Becher.
Famoso per le sue stampe di grandissime dimensioni e per le quotazioni milionarie raggiunte dalle sue opere, Gursky nei primi anni '90 è stato uno dei primi a intuire la potenza della post produzione digitale delle immagini.
Il suo occhio è sempre attento a immortalare le contraddizioni presenti nella nostra società consumistica, il nostro modo di abitare o di stipare le merci,il rapporto tra paesaggio e industria globalizzata.
Immergersi nel lavoro di Andreas Gursky comporta un viaggio nella catalogazione delle cose e nel dettaglio delle stesse (Becher docet!): spesso le sue fotografie, in realtà, sono composte da più scatti assemblati digitalmente e questo le rende altamente definite e navigabili.
E proprio l'elaborazione, per questo tributo, ha fatto vacillare, non poco, il mio povero e sfruttato PC. Ringrazio l'amico Marco Usala per il supporto tecnico artistico da remoto :-)
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Omaggio a A. Gursky - Nuoro, 2020
Andreas Gursky, classe 1955, è un fotografo tedesco che si è formato, tra gli altri istituti frequentati, a Dusseldorf nella mitica scuola dei coniugi Bernd e Hilla Becher.
Famoso per le sue stampe di grandissime dimensioni e per le quotazioni milionarie raggiunte dalle sue opere, Gursky nei primi anni '90 è stato uno dei primi a intuire la potenza della post produzione digitale delle immagini.
Il suo occhio è sempre attento a immortalare le contraddizioni presenti nella nostra società consumistica, il nostro modo di abitare o di stipare le merci,il rapporto tra paesaggio e industria globalizzata.
Immergersi nel lavoro di Andreas Gursky comporta un viaggio nella catalogazione delle cose e nel dettaglio delle stesse (Becher docet!): spesso le sue fotografie, in realtà, sono composte da più scatti assemblati digitalmente e questo le rende altamente definite e navigabili.
E proprio l'elaborazione, per questo tributo, ha fatto vacillare, non poco, il mio povero e sfruttato PC. Ringrazio l'amico Marco Usala per il supporto tecnico artistico da remoto :-)
Omaggio a A. Kertész - Nuoro, 2020 - Il primo testo di fotografia che comprai consapevolmente fu un libretto di colore nero della collana "Aperture Masters of Photography" della casa editrice tedesca Konemann: testi in tedesco, francese e inglese, costava relativamente poco (forse 10.000 lire) e aveva un formato quadrato di piccole dimensioni.
Ciò che mi attirò fu tutto questo, non di certo il nome del fotografo, tale André Kertész, un ungherese nato a fine '800 che visse la migliore Parigi degli anni '20 e '30 del secolo scorso per poi trasferirsi a New York, dove rimese fino alla fine dei suoi giorni, nel 1985.
Ma il primo libro non si scorda mai, soprattutto dopo essersi fatti trasportare dalle immagini di colui che viene considerato il maestro di buona parte dei fotografi che iniziarono a lavorare nella prima metà del 1900: lo stesso Henri Cartier Bresson ebbe a dire: "Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l'ha fatto prima". In poche parole un gigante, uno di quelli impossibili da relegare in qualche movimento particolare, perchè è passato per quasi tutti, oltretutto lasciando il segno in ognuno.
La fotografia che ha ispirato il tributo odierno si intitola "La forchetta", realizzata nel 1927 è un'immagine esplicativa della sua produzione: un'attenzione per i particolari, un modo di elevare a soggetto il dettaglio apparentemente banale, una dichiarazione d'amore per il quotidiano.
A me, questa fotografia, da cui sono incredibilmente attratto, ha sempre fatto sorgere delle domande: perchè piatto e posata sono così pulite? E' stata scattata prima di mangiare o da mangiare forse non ce n'era? Può una forchetta diventare un'opera d'arte, alla stregua di una pipa o di un blocco di marmo scolpito? Che valore hanno i piccoli gesti e che emozioni suscitano una volta che li rappresentiamo? Oggi pasta al sugo o alla ricotta?
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Omaggio a A. Kertész - Nuoro, 2020
Il primo testo di fotografia che comprai consapevolmente fu un libretto di colore nero della collana "Aperture Masters of Photography" della casa editrice tedesca Konemann: testi in tedesco, francese e inglese, costava relativamente poco (forse 10.000 lire) e aveva un formato quadrato di piccole dimensioni.
Ciò che mi attirò fu tutto questo, non di certo il nome del fotografo, tale André Kertész, un ungherese nato a fine '800 che visse la migliore Parigi degli anni '20 e '30 del secolo scorso per poi trasferirsi a New York, dove rimese fino alla fine dei suoi giorni, nel 1985.
Ma il primo libro non si scorda mai, soprattutto dopo essersi fatti trasportare dalle immagini di colui che viene considerato il maestro di buona parte dei fotografi che iniziarono a lavorare nella prima metà del 1900: lo stesso Henri Cartier Bresson ebbe a dire: "Tutto quello che abbiamo fatto, Kertész l'ha fatto prima". In poche parole un gigante, uno di quelli impossibili da relegare in qualche movimento particolare, perchè è passato per quasi tutti, oltretutto lasciando il segno in ognuno.
La fotografia che ha ispirato il tributo odierno si intitola "La forchetta", realizzata nel 1927 è un'immagine esplicativa della sua produzione: un'attenzione per i particolari, un modo di elevare a soggetto il dettaglio apparentemente banale, una dichiarazione d'amore per il quotidiano.
A me, questa fotografia, da cui sono incredibilmente attratto, ha sempre fatto sorgere delle domande: perchè piatto e posata sono così pulite? E' stata scattata prima di mangiare o da mangiare forse non ce n'era? Può una forchetta diventare un'opera d'arte, alla stregua di una pipa o di un blocco di marmo scolpito? Che valore hanno i piccoli gesti e che emozioni suscitano una volta che li rappresentiamo? Oggi pasta al sugo o alla ricotta?
Omaggio a D. Arbus - Nuoro, 2020 - Entrare nel mondo di Diane Arbus, senza rischiare di buttare a terra tutta la cristalleria, è un'opera ardua.
Questa fotografa americana, iniziata alla fotografia di moda da un marito con cui condivideva la professione, diventerà una delle prime fotografe di strada (nel senso che viene dato oggi al filone della street photography) e sarà una degli idoli artistici degli anni '60 e '70: mostre al MOMA e in importanti gallerie, addirittura prima fotografa invitata alla Biennale di Venezia nel 1972, anche se da morta, dato che si tolse la vita un anno prima.
I suoi soggetti sono persone che la Arbus iniziò a fotografare visitando quello che al tempo veniva considerato il lato oscuro di New York, girando per i teatri dove si esibivano nani o drag queen, entrando nelle case di cura per malati psichiatrici, frequentando i dormitori per i richiedenti asilo: tutti venivano ripresi quasi sempre frontalmente e, anche nelle ore diurne, Diane Arbus adoperava la luce diretta del flash, per drammattizzare, grazie ai contrasti, ancora di più la scena.
“Tu vedi una persona per la strada, e la cosa fondamentale che noti è il suo difetto” ebbe a dire la fotografa, che con tutti i suoi lavori ci spinge a confrontarci con ciò che la comune morale della società reputa diverso, sgradevole, brutto, ponendo gli accenti su dei concetti tra di loro apparentemente opposti come l'infanzia e la guerra, la vecchiaia e la sensualità, la bellezza e la deformità.
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Omaggio a D. Arbus - Nuoro, 2020
Entrare nel mondo di Diane Arbus, senza rischiare di buttare a terra tutta la cristalleria, è un'opera ardua.
Questa fotografa americana, iniziata alla fotografia di moda da un marito con cui condivideva la professione, diventerà una delle prime fotografe di strada (nel senso che viene dato oggi al filone della street photography) e sarà una degli idoli artistici degli anni '60 e '70: mostre al MOMA e in importanti gallerie, addirittura prima fotografa invitata alla Biennale di Venezia nel 1972, anche se da morta, dato che si tolse la vita un anno prima.
I suoi soggetti sono persone che la Arbus iniziò a fotografare visitando quello che al tempo veniva considerato il lato oscuro di New York, girando per i teatri dove si esibivano nani o drag queen, entrando nelle case di cura per malati psichiatrici, frequentando i dormitori per i richiedenti asilo: tutti venivano ripresi quasi sempre frontalmente e, anche nelle ore diurne, Diane Arbus adoperava la luce diretta del flash, per drammattizzare, grazie ai contrasti, ancora di più la scena.
“Tu vedi una persona per la strada, e la cosa fondamentale che noti è il suo difetto” ebbe a dire la fotografa, che con tutti i suoi lavori ci spinge a confrontarci con ciò che la comune morale della società reputa diverso, sgradevole, brutto, ponendo gli accenti su dei concetti tra di loro apparentemente opposti come l'infanzia e la guerra, la vecchiaia e la sensualità, la bellezza e la deformità.
Omaggio a F. Beato - Nuoro, 2020 - Che ci crediate o meno, in questa fotografia, mia figlia è travestita da Ghostbuster (il potere dell'immaginazione!): in realtà a me ha fatto venire in mente una stampa della seconda metà dell' 800 avente come soggetto una donna giapponese con bambino, ritratta dal fotografo Felice Beato, veneziano di origine, ma nativo di Corfù.
Un uomo con un nome così incredibile e una vita talmente avventurosa che sembra uscito dalle pagine di un libro di letteratura per ragazzi, un giramondo, un reporter di razza armato di apparecchio fotografico e di tanta curiosità nei confronti di culture e luoghi lontani allora quasi sconosciuti: in Giappone, ad esempio, la sua influenza è stata notevole, sia in termini di vero e proprio insegnamento delle tecniche di ripresa, sia per il livello della documentazione che ha prodotto, essendo stato tra i primi fotografi a mettere piede in estremo oriente.
Felice Beato, oltretutto, è stato un pioniere delle tecniche di colorazione a mano delle copie positive: io ho usato un banalissimo pennello di Photoshop su un supporto digitale, lui e i suoi assistenti pennellini e colori su stampe all'albumina 😍.
A proposito di Ghostbusters: per lunghissimo tempo si credette che Felice Beato avesse il dono dell'ubiquità, in quanto molte fotografie scattate nello stesso periodo in diverse parti del mondo portavano la "firma" F.A. Beato o Felice Antonio Beato (e non c'erano gli aerei...). Solo nel 1983 fu assodato, grazie allo storico Italo Zannier, che i fratelli Beato fossero due, Felice e Antonio, e che entrambi fossero fotografi professionisti.
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Omaggio a F. Beato - Nuoro, 2020
Che ci crediate o meno, in questa fotografia, mia figlia è travestita da Ghostbuster (il potere dell'immaginazione!): in realtà a me ha fatto venire in mente una stampa della seconda metà dell' 800 avente come soggetto una donna giapponese con bambino, ritratta dal fotografo Felice Beato, veneziano di origine, ma nativo di Corfù.
Un uomo con un nome così incredibile e una vita talmente avventurosa che sembra uscito dalle pagine di un libro di letteratura per ragazzi, un giramondo, un reporter di razza armato di apparecchio fotografico e di tanta curiosità nei confronti di culture e luoghi lontani allora quasi sconosciuti: in Giappone, ad esempio, la sua influenza è stata notevole, sia in termini di vero e proprio insegnamento delle tecniche di ripresa, sia per il livello della documentazione che ha prodotto, essendo stato tra i primi fotografi a mettere piede in estremo oriente.
Felice Beato, oltretutto, è stato un pioniere delle tecniche di colorazione a mano delle copie positive: io ho usato un banalissimo pennello di Photoshop su un supporto digitale, lui e i suoi assistenti pennellini e colori su stampe all'albumina 😍.
A proposito di Ghostbusters: per lunghissimo tempo si credette che Felice Beato avesse il dono dell'ubiquità, in quanto molte fotografie scattate nello stesso periodo in diverse parti del mondo portavano la "firma" F.A. Beato o Felice Antonio Beato (e non c'erano gli aerei...). Solo nel 1983 fu assodato, grazie allo storico Italo Zannier, che i fratelli Beato fossero due, Felice e Antonio, e che entrambi fossero fotografi professionisti.
Omaggio a M. Ray - Nuoro, 2020 - Emmanuel Radnitzky, passato alla storia con lo pseudonimo di Man Ray, sta alla fotografia come i Ramones stanno al Punk Rock: e il paragone non è così azzardato, dato che i dadaisti, corrente artistica a cui aderì il giovane fotografo americano, erano i punk degli anni '20 del 900: alternativi all'arte accademica o di tendenza, eccentrici e con una forte connotazione anti sistema.
E' a New York che Man Ray inizierà il suo percorso di pittore, scultore e fotografo, ma sarà Parigi che lo conquisterà e lo vedrà in prima linea nel panorama culturale dell'epoca: amico di Duchamp, Picabia, Tzara, Breton, fu proprio nella capitale francese che mise a punto i suoi studi sui ritratti solarizzati e sulle rayografie, tecniche dove la camera oscura diventava importante e fondamentale quanto, se non più, l'apparecchio di ripresa.
L'uso degli oggetti allestiti o posati sulla carta fotosensibile, le nature morte, i nudi sensuali e provocatori hanno fatto scuola come se quello pseudonimo scelto da ragazzo fosse un segno del destino: l'uomo raggio, l'uomo luce.
Nomen Omen.
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Omaggio a M. Ray - Nuoro, 2020
Emmanuel Radnitzky, passato alla storia con lo pseudonimo di Man Ray, sta alla fotografia come i Ramones stanno al Punk Rock: e il paragone non è così azzardato, dato che i dadaisti, corrente artistica a cui aderì il giovane fotografo americano, erano i punk degli anni '20 del 900: alternativi all'arte accademica o di tendenza, eccentrici e con una forte connotazione anti sistema.
E' a New York che Man Ray inizierà il suo percorso di pittore, scultore e fotografo, ma sarà Parigi che lo conquisterà e lo vedrà in prima linea nel panorama culturale dell'epoca: amico di Duchamp, Picabia, Tzara, Breton, fu proprio nella capitale francese che mise a punto i suoi studi sui ritratti solarizzati e sulle rayografie, tecniche dove la camera oscura diventava importante e fondamentale quanto, se non più, l'apparecchio di ripresa.
L'uso degli oggetti allestiti o posati sulla carta fotosensibile, le nature morte, i nudi sensuali e provocatori hanno fatto scuola come se quello pseudonimo scelto da ragazzo fosse un segno del destino: l'uomo raggio, l'uomo luce.
Nomen Omen.
Omaggio a A. Rodcenko - Nuoro, 2020 - "Gli amici di Majakovskij, sono anche amici miei" mi sarebbe piaciuto rispondere all'impossibile incontro che ebbi con Aleksandr Rodcenko, artista sovietico completissimo: pittore, grafico, divulgatore editoriale, fotografo, rivoluzionario, fu tra i fondatori e indiscusso protagonista del movimento costruttivista russo.
Famoso per i suoi fotomontaggi socio/politici/propagandistici e per i suoi manifesti culturali, nel 1924 scelse la fotografia come mezzo espressivo principale e dal 1925, data in cui sostituì un ingombrante banco ottico da studio con una Leica ben più maneggevole, iniziò a realizzare delle immagini che ritraevano spazi aperti e oggetti d'uso quotidiano inquadrati da delle prospettive insolite. Obliquamente, dal basso verso l'alto o viceversa, un pò come fanno i bambini al loro primo approccio con la macchina fotografica, forti di una curiosità che li spinge a cercare soggetti oltre la cosiddetta "altezza d'occhio".
Punti di forza di queste fotografie sono da ricercare nelle linee e nelle geometrie che Rodcenko catturava e che componeva con le luci e le ombre, creando delle vedute inaspettate, quasi astratte.
Ho pensato a lui dopo aver scattato nei giorni scorsi questa fotografia del mio palazzo, dove si sta vivendo questa quarantena e tutte le sue limitazioni con molta responsabilità e altrettanta solidarietà e collaborazione: che dai condominii e dai quartieri, piccoli soviet di nuova socialità, possa scoccare la scintilla di una prossima rivoluzione?
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Omaggio a A. Rodcenko - Nuoro, 2020
"Gli amici di Majakovskij, sono anche amici miei" mi sarebbe piaciuto rispondere all'impossibile incontro che ebbi con Aleksandr Rodcenko, artista sovietico completissimo: pittore, grafico, divulgatore editoriale, fotografo, rivoluzionario, fu tra i fondatori e indiscusso protagonista del movimento costruttivista russo.
Famoso per i suoi fotomontaggi socio/politici/propagandistici e per i suoi manifesti culturali, nel 1924 scelse la fotografia come mezzo espressivo principale e dal 1925, data in cui sostituì un ingombrante banco ottico da studio con una Leica ben più maneggevole, iniziò a realizzare delle immagini che ritraevano spazi aperti e oggetti d'uso quotidiano inquadrati da delle prospettive insolite. Obliquamente, dal basso verso l'alto o viceversa, un pò come fanno i bambini al loro primo approccio con la macchina fotografica, forti di una curiosità che li spinge a cercare soggetti oltre la cosiddetta "altezza d'occhio".
Punti di forza di queste fotografie sono da ricercare nelle linee e nelle geometrie che Rodcenko catturava e che componeva con le luci e le ombre, creando delle vedute inaspettate, quasi astratte.
Ho pensato a lui dopo aver scattato nei giorni scorsi questa fotografia del mio palazzo, dove si sta vivendo questa quarantena e tutte le sue limitazioni con molta responsabilità e altrettanta solidarietà e collaborazione: che dai condominii e dai quartieri, piccoli soviet di nuova socialità, possa scoccare la scintilla di una prossima rivoluzione?
Omaggio a E. Steichen - Nuoro, 2020 - 
"C’è un solo uomo al mondo
e il suo nome è Tutti Gli Uomini.
C’è una sola donna al mondo
e il suo nome è Tutte Le Donne.
C’è un solo bambino al mondo
e il suo nome è Tutti i Bambini"
Carl Sandburg, dal prologo alla mostra “The Family of Man”

Nel 1955 il mondo ebbe l’occasione di ammirare per la prima volta la mostra fotografica collettiva “The Family of Man” voluta, ideata e curata dal fotografo Edward Steichen e inaugurata in quell’anno al MOMA di New York.
273 fotografi da 68 paesi furono selezionati per confrontarsi su un tema solo all’apparenza molto semplice: l’uomo ritratto nella sua quotidianità, nelle sue diverse età, in guerra e in pace, in solitudine o immerso nelle moltitudini di suoi simili, nelle gioie della vita o nel lutto della morte.
Questo approccio fotografico, questo sguardo universalistico sull’umana realtà, prese il nome di fotografia umanista e aveva come obiettivo quello di creare un linguaggio accessibile a tutti, un messaggio che trasmettesse concetti profondi quali la solidarietà globale, l’uguaglianza nella diversità, la bellezza racchiusa nei volti, nelle posture e nelle situazioni ritratte a livello planetario.
Questo tributo, un pò anomalo, più che allo Steichen fotografo è dedicato allo Steichen ideatore e curatore di una delle mostre fotografiche più importanti di sempre e che è ancora visitabile presso il castello di Clervaux in Lussemburgo.

Nella fotografia: "Teatro d'ombre paurose"
Regia, scenografia e luci: Elias
Musica: Toccata e fuga in Re minore di J. S. Bach

Un pensiero va a tutti gli amici che lavorano nel mondo della fotografia, dell'arte, del teatro, della musica e della cultura in genere e che ora pensano, producono e si interrogano sul domani. Ce la faremo e torneremo, forti come non mai, a rendere il Mondo un posto migliore <3!
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Omaggio a E. Steichen - Nuoro, 2020

"C’è un solo uomo al mondo
e il suo nome è Tutti Gli Uomini.
C’è una sola donna al mondo
e il suo nome è Tutte Le Donne.
C’è un solo bambino al mondo
e il suo nome è Tutti i Bambini"

Carl Sandburg, dal prologo alla mostra “The Family of Man”

Nel 1955 il mondo ebbe l’occasione di ammirare per la prima volta la mostra fotografica collettiva “The Family of Man” voluta, ideata e curata dal fotografo Edward Steichen e inaugurata in quell’anno al MOMA di New York.
273 fotografi da 68 paesi furono selezionati per confrontarsi su un tema solo all’apparenza molto semplice: l’uomo ritratto nella sua quotidianità, nelle sue diverse età, in guerra e in pace, in solitudine o immerso nelle moltitudini di suoi simili, nelle gioie della vita o nel lutto della morte.
Questo approccio fotografico, questo sguardo universalistico sull’umana realtà, prese il nome di fotografia umanista e aveva come obiettivo quello di creare un linguaggio accessibile a tutti, un messaggio che trasmettesse concetti profondi quali la solidarietà globale, l’uguaglianza nella diversità, la bellezza racchiusa nei volti, nelle posture e nelle situazioni ritratte a livello planetario.
Questo tributo, un pò anomalo, più che allo Steichen fotografo è dedicato allo Steichen ideatore e curatore di una delle mostre fotografiche più importanti di sempre e che è ancora visitabile presso il castello di Clervaux in Lussemburgo.

Nella fotografia: "Teatro d'ombre paurose"
Regia, scenografia e luci: Elias
Musica: Toccata e fuga in Re minore di J. S. Bach

Un pensiero va a tutti gli amici che lavorano nel mondo della fotografia, dell'arte, del teatro, della musica e della cultura in genere e che ora pensano, producono e si interrogano sul domani. Ce la faremo e torneremo, forti come non mai, a rendere il Mondo un posto migliore <3!
Omaggio a R. Avedon - Nuoro, 2020 - 
"In the american West" (1979 - 1984) non è sicuramente il lavoro che ha portato la celebrità a Richard Avedon, già famoso e pagatissimo da oltre tre decenni per avere immortalato i volti dei personaggi più influenti del suo tempo, ma probabilmente è il più controverso.
Questo progetto ha visto il fotografo americano attraversare la periferia del paese per cinque anni, inoltrarsi nel cuore e nelle viscere degli Stati Uniti per fotografare operai e impiegati di ogni settore, senza fissa dimora, disoccupati, agricoltori, reduci di guerra, una folla persone comuni e di ultimi i cui ritratti vennero stampati in grande formato e sparati in faccia all'altra parte del paese, quella benpensante e sempre al top.
Le fotografie sono costruite tutte alla stessa maniera: pellicola bianconero, fondo bianco, luce diurna diffusa, soggetto centrato e quasi sempre a mezzo busto.
I suoi detrattori lo accusarono di approffittare della condizione di indigenza di queste persone per farsi pubblicità, lui si difendeva dicendo che tutti avevano diritto a un suo ritratto e, conseguentemente, alla "celebrità" che ne derivava.
Io credo che Richard Avedon non avesse proprio nulla da dimostrare a nessuno, se non a stesso. Il suo stile è talmente inconfondibile che non ha bisogno di didascalie, è una calamita per lo sguardo, sia che ritragga il vero Spider Man, sia che immortali un bambino di una qualsiasi periferia del mondo con uno dei suoi costumi preferiti.
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Omaggio a R. Avedon - Nuoro, 2020

"In the american West" (1979 - 1984) non è sicuramente il lavoro che ha portato la celebrità a Richard Avedon, già famoso e pagatissimo da oltre tre decenni per avere immortalato i volti dei personaggi più influenti del suo tempo, ma probabilmente è il più controverso.
Questo progetto ha visto il fotografo americano attraversare la periferia del paese per cinque anni, inoltrarsi nel cuore e nelle viscere degli Stati Uniti per fotografare operai e impiegati di ogni settore, senza fissa dimora, disoccupati, agricoltori, reduci di guerra, una folla persone comuni e di ultimi i cui ritratti vennero stampati in grande formato e sparati in faccia all'altra parte del paese, quella benpensante e sempre al top.
Le fotografie sono costruite tutte alla stessa maniera: pellicola bianconero, fondo bianco, luce diurna diffusa, soggetto centrato e quasi sempre a mezzo busto.
I suoi detrattori lo accusarono di approffittare della condizione di indigenza di queste persone per farsi pubblicità, lui si difendeva dicendo che tutti avevano diritto a un suo ritratto e, conseguentemente, alla "celebrità" che ne derivava.
Io credo che Richard Avedon non avesse proprio nulla da dimostrare a nessuno, se non a stesso. Il suo stile è talmente inconfondibile che non ha bisogno di didascalie, è una calamita per lo sguardo, sia che ritragga il vero Spider Man, sia che immortali un bambino di una qualsiasi periferia del mondo con uno dei suoi costumi preferiti.
Omaggio a W. E. Smith - Nuoro, 2020 - 
William Eugen Smith, fotografo americano nato nel 1918, fu un talento precocissimo: pubblicò la sua prima immagine sul New Yorker a soli 14 anni e nel 1936 la Notre Dame University istituì appositamente per lui il Corso di Fotografia. 
Doveva avere anche un bel carattere: bruciò tutti i negativi relativi alla produzione giovanile, abbandonò la rivista Newsweek perchè si rifiutava di lavorare con le ingombranti Graphic 4x5 e anche con Life il rapporto non fu esattamente idilliaco, in quanto il fotografo pretendeva che i suoi reportage venissero pubblicati con un numero maggiore di immagini e che i testi e le didascalie fossero molto sintetici se non del tutto assenti.
Smith, come abbiamo intuito, desiderava rompere con la tradizione che vedeva la fotografia come orpello agli articoli testuali e questo lo portò a teorizzare il cosiddetto saggio fotografico, spingendolo negli anni a dedicarsi quasi esclusivamente alla pubblicazione su libro dei suoi reportage, in modo da avere un controllo quasi completo sul lavoro.
La fotografia che pubblico oggi, un'immagine dei miei bambini che vanno in esplorazione del cortile del palazzo, vuole essere un tributo alla famosissima fotografia di W. E. Smith "Il sentiero verso il giardino del Paradiso" (1946), in cui lui stesso fotografò i piccoli figli: fu uno scatto travagliatissimo anche dal punto di vista fisico, il primo dopo più di un anno, da quando un ordigno sul fronte Pacifico della guerra gli lacerò la mano sinistra e parte del volto, e forse proprio per questo motivo è una fotografia così ricca di speranza e ottimismo verso il futuro. 
Mi piace riportare un suo pensiero a dir poco attuale, scritto a proposito del suo reportage "Minamata" in cui denunciava e documentava gli effetti dell'inquinamento da mercurio sulla popolazione di questo villaggio giapponese: "Sono uno che crede nella vita. Posso disperarmi, preoccuparmi, soffrire profondamente ma non rinuncio al mondo e agli altri. [...] Non c'è niente in questa storia che non sia positivo, per quanto io possa essere a volte cinico o critico, di fondo in me c'è ottimismo, non disperazione. E dico sul serio"
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Omaggio a W. E. Smith - Nuoro, 2020

William Eugen Smith, fotografo americano nato nel 1918, fu un talento precocissimo: pubblicò la sua prima immagine sul New Yorker a soli 14 anni e nel 1936 la Notre Dame University istituì appositamente per lui il Corso di Fotografia.
Doveva avere anche un bel carattere: bruciò tutti i negativi relativi alla produzione giovanile, abbandonò la rivista Newsweek perchè si rifiutava di lavorare con le ingombranti Graphic 4x5 e anche con Life il rapporto non fu esattamente idilliaco, in quanto il fotografo pretendeva che i suoi reportage venissero pubblicati con un numero maggiore di immagini e che i testi e le didascalie fossero molto sintetici se non del tutto assenti.
Smith, come abbiamo intuito, desiderava rompere con la tradizione che vedeva la fotografia come orpello agli articoli testuali e questo lo portò a teorizzare il cosiddetto saggio fotografico, spingendolo negli anni a dedicarsi quasi esclusivamente alla pubblicazione su libro dei suoi reportage, in modo da avere un controllo quasi completo sul lavoro.
La fotografia che pubblico oggi, un'immagine dei miei bambini che vanno in esplorazione del cortile del palazzo, vuole essere un tributo alla famosissima fotografia di W. E. Smith "Il sentiero verso il giardino del Paradiso" (1946), in cui lui stesso fotografò i piccoli figli: fu uno scatto travagliatissimo anche dal punto di vista fisico, il primo dopo più di un anno, da quando un ordigno sul fronte Pacifico della guerra gli lacerò la mano sinistra e parte del volto, e forse proprio per questo motivo è una fotografia così ricca di speranza e ottimismo verso il futuro.
Mi piace riportare un suo pensiero a dir poco attuale, scritto a proposito del suo reportage "Minamata" in cui denunciava e documentava gli effetti dell'inquinamento da mercurio sulla popolazione di questo villaggio giapponese: "Sono uno che crede nella vita. Posso disperarmi, preoccuparmi, soffrire profondamente ma non rinuncio al mondo e agli altri. [...] Non c'è niente in questa storia che non sia positivo, per quanto io possa essere a volte cinico o critico, di fondo in me c'è ottimismo, non disperazione. E dico sul serio"
Omaggio a F. Zizola - Nuoro, 2020 - 
"Sale, Sudore, Sangue" è il titolo del reportage del fotografo romano Francesco Zizola, una storia per immagini che racconta la pesca al tonno nelle tonnare del Sud Ovest della Sardegna.
Già dal titolo capiamo che i protagonisti di questo splendido lavoro sono tre: il mare, l'uomo e il pesce, uniti nella pratica antica della mattanza, una modalità di pesca altamente sostenibile e, allo stesso tempo, innegabilmente cruenta. E Zizola riesce con estremo realismo e con un bianco e nero da manuale a visualizzare questo connubio che si ripete per pochi giorni, una volta all'anno.
Questo fotografo, vincitore di importantissimi premi a livello internazionale tra cui il prestigioso World Press Photo of the Year per un suo lavoro sulle vittime delle mine anti uomo in Angola, non si limita a immortalare barche e paesaggi, a ritrarre i volti degli uomini a lavoro nella tonnara associandoli a quelli delle loro prede, ma li segue anche sotto la superficie del mare, tra le reti e i banchi dei tonni, immerso in uno spazio dove la luce e il buio ci portano a riconsiderare i fondamentali della fotografia. 
Lo stesso mare dove ho passato le estati della mia infanzia e della mia adolescenza, da dove mio nonno materno, tabarchino doc, partì in gioventù alla ricerca di amore e fortuna e dove è sempre ritornato per trascorrerci diversi mesi all'anno.
Non avendo molto spazio in freezer, non ho potuto congelare un tonno rosso e perciò, per questo tributo, ci dobbiamo accontentare di una spigola.
Buon primo Aprile!
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Omaggio a F. Zizola - Nuoro, 2020

"Sale, Sudore, Sangue" è il titolo del reportage del fotografo romano Francesco Zizola, una storia per immagini che racconta la pesca al tonno nelle tonnare del Sud Ovest della Sardegna.
Già dal titolo capiamo che i protagonisti di questo splendido lavoro sono tre: il mare, l'uomo e il pesce, uniti nella pratica antica della mattanza, una modalità di pesca altamente sostenibile e, allo stesso tempo, innegabilmente cruenta. E Zizola riesce con estremo realismo e con un bianco e nero da manuale a visualizzare questo connubio che si ripete per pochi giorni, una volta all'anno.
Questo fotografo, vincitore di importantissimi premi a livello internazionale tra cui il prestigioso World Press Photo of the Year per un suo lavoro sulle vittime delle mine anti uomo in Angola, non si limita a immortalare barche e paesaggi, a ritrarre i volti degli uomini a lavoro nella tonnara associandoli a quelli delle loro prede, ma li segue anche sotto la superficie del mare, tra le reti e i banchi dei tonni, immerso in uno spazio dove la luce e il buio ci portano a riconsiderare i fondamentali della fotografia.
Lo stesso mare dove ho passato le estati della mia infanzia e della mia adolescenza, da dove mio nonno materno, tabarchino doc, partì in gioventù alla ricerca di amore e fortuna e dove è sempre ritornato per trascorrerci diversi mesi all'anno.
Non avendo molto spazio in freezer, non ho potuto congelare un tonno rosso e perciò, per questo tributo, ci dobbiamo accontentare di una spigola.
Buon primo Aprile!
Omaggio a R. Gibson - Nuoro, 2020 - 
Era da molto tempo che non sfogliavo il lavoro di Ralph Gibson, ottantenne fotografo californiano, che in gioventù fu assistente niente meno che di Dorothea Lange e di Robert Frank, due dei massimi esponenti della fotografia documentaristica mondiale. La sua strada poteva quindi sembrare segnata e ricca di successi nella corrente che lo aveva accolto e formato, ma decise di fare qualcosa di più: essere attratto e immortalare tutto ciò che lo circondava, convinto sostenitore dell'uguaglianza un oggetto/un soggetto.
In effetti, scorrendo le schermate del suo completissimo sito web, ci rendiamo conto di come sia praticamente impossibile affibiare a Ralph Gibson una qualsiasi affiliazione a generi o filoni: l'unico tema comune che proverei a individuare, lo azzarderei nel suo essere sempre surreale e onirico, come se le sue fotografie fossero dei frammenti di sogni, sia che fossero fatte in strada o in casa, sia che fossero ritratti o paesaggi e oggetti.
Soprattutto negli ultimi anni e con il passaggio al digitale, il suo stile si è maggiormente concentrato sulla rappresentazione delle forme e delle linee, non disdegnando l'uso del colore pittosto che il bianco e nero a "grana grossa" che lo aveva contraddistinto nei decenni precedenti.
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Omaggio a R. Gibson - Nuoro, 2020

Era da molto tempo che non sfogliavo il lavoro di Ralph Gibson, ottantenne fotografo californiano, che in gioventù fu assistente niente meno che di Dorothea Lange e di Robert Frank, due dei massimi esponenti della fotografia documentaristica mondiale. La sua strada poteva quindi sembrare segnata e ricca di successi nella corrente che lo aveva accolto e formato, ma decise di fare qualcosa di più: essere attratto e immortalare tutto ciò che lo circondava, convinto sostenitore dell'uguaglianza un oggetto/un soggetto.
In effetti, scorrendo le schermate del suo completissimo sito web, ci rendiamo conto di come sia praticamente impossibile affibiare a Ralph Gibson una qualsiasi affiliazione a generi o filoni: l'unico tema comune che proverei a individuare, lo azzarderei nel suo essere sempre surreale e onirico, come se le sue fotografie fossero dei frammenti di sogni, sia che fossero fatte in strada o in casa, sia che fossero ritratti o paesaggi e oggetti.
Soprattutto negli ultimi anni e con il passaggio al digitale, il suo stile si è maggiormente concentrato sulla rappresentazione delle forme e delle linee, non disdegnando l'uso del colore pittosto che il bianco e nero a "grana grossa" che lo aveva contraddistinto nei decenni precedenti.
Omaggio a T. D'Amico - Nuoro, 2020  - "Queste sono immagini che non hanno mai servito nessuno. Non servono a niente. Non sono serve. Si fanno solo amare e ricordare". Così scrivevamo, per mano di Elisa Medde, nel catalogo di presentazione alla mostra di Tano D'Amico "Una storia di donne" che, come Madriche, organizzammo a Nuoro a cavallo tra il 2008 e il 2009.
Passare del tempo a chiacchierare con lui fu per me molto formativo: a ogni manifestazione di piazza a cui andavo avevo sempre con me la macchina fotografica e inevitabilmente il pensiero andava alle fotografie di Tano, che fu capace di rappresentare la protesta giovanile, le lotte per le occupazioni, gli scioperi per il lavoro, gli scontri, i morti, i feriti nelle nostre strade. Dagli anni 60 fino a oggi, questo signore non si è fermato un attimo, creando una storia visuale ormai condivisa da almeno tre generazioni, rigorosamente in bianco e nero e con le didascalie scritte a mano, di suo pugno.
Perchè Tano D'Amico è memoria collettiva, come uno di quei racconti che si tramandano o come un libro che non teme gli spoiler, perchè il finale non è scritto da nessuna parte e nessuno può essere certo nel fare pronostici: fino a quando ci sarà una ragazza che fronteggia l'autorità, con le trecce legate sulla testa per non dare appigli ai celerini e un fazzoletto a coprirle il viso, spero ci sia anche un fotografo pronto a creare il ritratto di un'intera generazione.
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Omaggio a T. D'Amico - Nuoro, 2020
"Queste sono immagini che non hanno mai servito nessuno. Non servono a niente. Non sono serve. Si fanno solo amare e ricordare". Così scrivevamo, per mano di Elisa Medde, nel catalogo di presentazione alla mostra di Tano D'Amico "Una storia di donne" che, come Madriche, organizzammo a Nuoro a cavallo tra il 2008 e il 2009.
Passare del tempo a chiacchierare con lui fu per me molto formativo: a ogni manifestazione di piazza a cui andavo avevo sempre con me la macchina fotografica e inevitabilmente il pensiero andava alle fotografie di Tano, che fu capace di rappresentare la protesta giovanile, le lotte per le occupazioni, gli scioperi per il lavoro, gli scontri, i morti, i feriti nelle nostre strade. Dagli anni 60 fino a oggi, questo signore non si è fermato un attimo, creando una storia visuale ormai condivisa da almeno tre generazioni, rigorosamente in bianco e nero e con le didascalie scritte a mano, di suo pugno.
Perchè Tano D'Amico è memoria collettiva, come uno di quei racconti che si tramandano o come un libro che non teme gli spoiler, perchè il finale non è scritto da nessuna parte e nessuno può essere certo nel fare pronostici: fino a quando ci sarà una ragazza che fronteggia l'autorità, con le trecce legate sulla testa per non dare appigli ai celerini e un fazzoletto a coprirle il viso, spero ci sia anche un fotografo pronto a creare il ritratto di un'intera generazione.
Omaggio a E. Templeton - Nuoro, 2020 - 
Avevo scritto un testo in cui parlavo di Ed Templeton, del fatto che artisticamente non lo conoscessi prima della sua mostra personale al MAN di Nuoro del 2010 (ma già lo conoscevo come skater e come fondatore della Toy Machine); della meraviglia che provai nel conoscerlo personalmente e nel vedere il suo allestimento con le pareti cariche di stampe fotografiche di diverse dimensioni in cui questo strepitoso artista raccontava la vita dei giovani americani, una vita fatta di gioco, dipendenze, sesso e  normalità; delle sue vedute street realizzate dall'automobile in corsa, in cui colore acceso e prospettiva insolita ci regalano paesaggi e vedute inaspettate; dei ritratti in bianco e nero impreziositi da interventi pittorici e grafici; dei particolari di una notte passata in un motel o in un albergo europeo in compagnia della moglie. 
Avevo scritto tutto questo e l'ho perduto. Capita.
Comunque, consiglio vivamente di visitare il suo Instagram, in cui pubblica regolarmente lavori vecchi e nuovi.
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Omaggio a E. Templeton - Nuoro, 2020

Avevo scritto un testo in cui parlavo di Ed Templeton, del fatto che artisticamente non lo conoscessi prima della sua mostra personale al MAN di Nuoro del 2010 (ma già lo conoscevo come skater e come fondatore della Toy Machine); della meraviglia che provai nel conoscerlo personalmente e nel vedere il suo allestimento con le pareti cariche di stampe fotografiche di diverse dimensioni in cui questo strepitoso artista raccontava la vita dei giovani americani, una vita fatta di gioco, dipendenze, sesso e normalità; delle sue vedute street realizzate dall'automobile in corsa, in cui colore acceso e prospettiva insolita ci regalano paesaggi e vedute inaspettate; dei ritratti in bianco e nero impreziositi da interventi pittorici e grafici; dei particolari di una notte passata in un motel o in un albergo europeo in compagnia della moglie.
Avevo scritto tutto questo e l'ho perduto. Capita.
Comunque, consiglio vivamente di visitare il suo Instagram, in cui pubblica regolarmente lavori vecchi e nuovi.
Omaggio a J. Wall - Nuoro 2020 - 
Il tributo odierno lo vorrei dediacare a Jeff Wall, fotografo canadese, teorico della fotografia ambientata o allestita.
La storica della fotografia Roberta Valtorta, nel suo "Il pensiero dei fotografi" riporta una considerazione dello stesso Wall sul suo lavoro: «Uno dei problemi delle mie fotografie sta nel fatto che, siccome sono costruite, siccome sono, come io dico, “cinematografiche”, si può avere la sensazione che contengano tutto, che non vi sia un “fuori” rispetto a esse, come c’è in generale in tutta la fotografia. Nell’estetica dell’arte fotografica che discende dal fotogiornalismo, l’immagine è chiaramente un frammento di una totalità più grande che in se stessa non può mai essere direttamente esperita. Il frammento, dunque, rende a suo modo quella totalità visibile o comprensibile, forse attraverso una complessa tipologia di gesti, oggetti, modi ecc. Ma c’è un “fuori” rispetto all’immagine, e questo fuori pesa sull’immagine, esigendo da essa significato. Il resto del mondo rimane non visto ma presente, con la sua richiesta di venire espresso o significato nel frammento o come frammento.»
Quindi potremmo asserire che la fotografia di fiction è più inerente al reale di una una fotografia documentaria? Potremmo.
Una delle sue fotografie più note, alla quale ho pensato dopo aver realizzato la mia nel salotto di casa, si intitola "The Destroyed Room" ed è a sua volta ispirata a un quadro del pittore Delocroix (molta della produzione di Jeff wall si rifà alla tradizione pittorica): la differenza sta nel fatto che l'allestimento a casa mia non è stato progettato nè tanto meno realizzato dal fotografo...
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Omaggio a J. Wall - Nuoro 2020

Il tributo odierno lo vorrei dediacare a Jeff Wall, fotografo canadese, teorico della fotografia ambientata o allestita.
La storica della fotografia Roberta Valtorta, nel suo "Il pensiero dei fotografi" riporta una considerazione dello stesso Wall sul suo lavoro: «Uno dei problemi delle mie fotografie sta nel fatto che, siccome sono costruite, siccome sono, come io dico, “cinematografiche”, si può avere la sensazione che contengano tutto, che non vi sia un “fuori” rispetto a esse, come c’è in generale in tutta la fotografia. Nell’estetica dell’arte fotografica che discende dal fotogiornalismo, l’immagine è chiaramente un frammento di una totalità più grande che in se stessa non può mai essere direttamente esperita. Il frammento, dunque, rende a suo modo quella totalità visibile o comprensibile, forse attraverso una complessa tipologia di gesti, oggetti, modi ecc. Ma c’è un “fuori” rispetto all’immagine, e questo fuori pesa sull’immagine, esigendo da essa significato. Il resto del mondo rimane non visto ma presente, con la sua richiesta di venire espresso o significato nel frammento o come frammento.»
Quindi potremmo asserire che la fotografia di fiction è più inerente al reale di una una fotografia documentaria? Potremmo.
Una delle sue fotografie più note, alla quale ho pensato dopo aver realizzato la mia nel salotto di casa, si intitola "The Destroyed Room" ed è a sua volta ispirata a un quadro del pittore Delocroix (molta della produzione di Jeff wall si rifà alla tradizione pittorica): la differenza sta nel fatto che l'allestimento a casa mia non è stato progettato nè tanto meno realizzato dal fotografo...

Tempo non ne manca, 2020

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