Ero bambino, ultimo anno delle scuole elementari. Come ogni inizio Estate andavo a Orgosolo da alcune mie zie per trascorrere con loro e le rispettive famiglie un paio di settimane, prima che mio padre prendesse le ferie e ci portasse in villeggiatura al mare per tutto il mese di Luglio.
Il Giugno del ‘69 però fu una data che io e altre migliaia di persone non potremmo scordare: in quei giorni infatti prese avvio quella che passò alla storia come la “rivolta di Pratobello”, un movimento di popolo di cui, proprio quest’anno, ricorrono i primi 50 anni. Tutto il paese si mobilitò per impedire allo stato italiano di impiantare un poligono di tiro in quel territorio che sovrasta il paese e che si trova ai piedi del massiccio del Supramonte: donne, uomini, ragazzi, bambini, ognuno con un ruolo ben preciso, decisi e forti, contrastarono militari e poliziotti come mai nessuno fece prima. E alla fine, contro ogni previsione, vinsero. Anzi, vincemmo!
Questo è il primo ricordo che mi è venuto in mente quando mi hai chiesto di accompagnare le tue fotografie con qualche mia parola.
Come sai, vivo lontano dalla Sardegna da tantissimi anni, ma ogni volta che ritorno non posso fare a meno di fermarmi in paese almeno qualche giorno; amo camminare per le sue campagne, vedere come il paesaggio cambia con il passare del tempo.
Come in qualsiasi altro luogo, mi capita di vedere cose gradevoli, alcune magnifiche, altre obrobriose. Tutte convivono negli stessi luoghi, a un passo l’una dall’altra, come se si ignorassero a vicenda, convinte di poter vivere in autonomia il proprio destino: pensiero da uomini più che da oggetti inanimati, potresti dirmi! Certo, ti rispondo io. E aggiungo: il paesaggio che hai immortalato non è forse lo specchio della comunità che lo vive, lo abita, lo trasforma?
Il villaggio abbandonato di Pratobello, la diga di Olai, i pascoli di Pradu, i lecci di Montes, il terreno aspro nella strada per Funtana Bona e quello scempio del cantiere interrotto del Cumbidanovu, non sono altro che il mondo che abbiamo costruito e che continuiamo a costruire, il mondo di cui abbiamo cura o che abbandoniamo a se stesso.
Vedi, la differenza tra il bello e il brutto in un paesaggio credo che risieda proprio nella volontà dell’uomo di proiettarsi nel futuro, di difendere con ogni mezzo e valorizzare il frutto del proprio lavoro, dedicare tempo e sudore affinchè fiorisca e brulichi di vita. Altrimenti saranno solo case vandalizzate o diroccate e squarci sul greto del fiume ai piedi di una meravigliosa montagna.
All'interno della collettiva "Terra da abitare. Belezza da custodire" a cura di Salvatore Ligios